30/06/15

massacro di Aigues-Mortes



il massacro degli italiani ad Aigues-Mortes fu una serie di avvenimenti che si svolsero tra il 16 ed il 17 agosto 1893 ad Aigues-Mortes, nella regione francese della Linguadoca-Rossiglione, e che causarono la morte di diversi immigrati italiani impiegati nelle saline, per mano di lavoratori e popolani francesi.

Gli eventi

Nell'estate del 1893, la Compagnie des Salins du Midi cominciò ad assumere lavoratori per la raccolta stagionale del sale dalle vasche di evaporazione delle saline. Con la disoccupazione in aumento a causa della crisi economica europea, la prospettiva di trovare lavoro stagionale attirò più persone del solito. Gli stagionali furono suddivisi in tre categorie: gli ardéchois (contadini, provenienti in molti casi, anche se non sempre, dal dipartimento rurale dell'Ardèche, che lasciavano i campi stagionalmente), i piémontais (italiani, provenienti da tutta l'Italia settentrionale e reclutati sul posto da caporali) e i trimards (vagabondi).

A causa delle politiche di reclutamento della Compagnie des Salins du Midi, i caporali erano costretti a formare squadre miste composte sia da francesi che da italiani. La mattina del 16 agosto, una rissa tra lavoratori delle due comunità degenerò rapidamente in una questione d'onore. Nonostante l'intervento di un giudice di pace e della Gendarmerie nationale, la situazione peggiorò rapidamente[4]. Alcuni trimards raggiunsero la città di Aigues-Mortes e diffusero la falsa notizia che gli italiani avevano ucciso alcuni concittadini; la popolazione ed i lavoratori locali rimasti disoccupati andarono quindi ad ingrossare le file dei lavoratori francesi inferociti. Un gruppo di italiani in città fu attaccato e si rifugiò in una panetteria, cui i francesi tentarono di dar fuoco. Il prefetto richiese l'invio di truppe intorno alle 4 del mattino del 17 agosto, ma queste giunsero in città solo alle 18, quando la strage si era già consumata.

Al mattino la situazione degenerò. I rivoltosi si diressero alle saline Peccais, dove era concentrato il maggior numero di lavoratori italiani. Il capitano della Gendarmeria Cabley cercò di proteggere gli italiani, promettendo ai rivoltosi che avrebbe cacciato gli italiani una volta che fossero stati accompagnati alla stazione ferroviaria di Aigues-Mortes. Proprio durante il trasferimento alla stazione, però, gli italiani furono attaccati dai rivoltosi, che i gendarmi non riuscirono a contenere, venendo linciati, bastonati, affogati o colpiti da armi da fuoco.

Conseguenze

Quando la notizia del massacro arrivò in Italia, scoppiarono rivolte anti-francesi in molte città. Le testimonianze degli italiani feriti così come i lanci d'agenzia di notizie inesatte (girarono voci di centinaia di morti, bambini impalati e portati in giro come trofei, ecc.) fecero montare un'ondata di indignazione. A Genova e Napoli, alcuni tram di proprietà da una società francese furono incendiati. A Roma le finestre dell'ambasciata di Francia in Italia furono oggetto di lanci di oggetti e per un po' le proteste della folla inferocita sembrarono sul punto di sfociare in aperta rivolta.

La vicenda diventò una questione diplomatica e la stampa estera si schierò dalla parte degli italiani. Fu trovata una soluzione diplomatica ed entrambe le parti furono indennizzate: i lavoratori italiani da un lato e lo stato francese per i disordini a Palazzo Farnese, sede dell'ambasciata. Il sindaco di Aigues-Mortes, Marius Terras, dovette rassegnare le dimissioni.

Le vittime

Le cifre esatte non sono chiare. Secondo le autorità francesi, i morti furono otto, tutti italiani. Furono identificati i cadaveri di sette di loro: Carlo Tasso di Alessandria, Vittorio Caffaro di Pinerolo, Bartolomeo Calori di Torino, Giuseppe Merlo di Centallo, Rolando Lorenzo di Altare, Paolo Zanetti di Nese, Amaddio Caponi di San Miniato e Giovanni Bonetto di Frassino. Il corpo di una nona vittima, Secondo Torchio di Tigliole, non fu mai trovato. Altri 17 italiani erano feriti troppo gravemente per essere evacuati in treno e rimasero in Francia. Uno di loro morì di tetano dopo un mese.

Il quotidiano parigino Le Temps, in un articolo datato 18 agosto, riferì che c'erano una decina di corpi in ospedale, mentre altri dovevano essere annegati ed altri ancora erano morti in seguito alle ferite.

Il New York Times, nella cronaca del processo ai capipopolo, riferì che "dieci uomini sono stati uccisi e ventisei feriti", rettificando quanto detto in precedenza, ovvero che 45 cadaveri erano stati raccolti mentre altri giacevano dispersi nelle paludi..

Il The Graphic di Londra, una settimana dopo i fatti, riferiva che 28 italiani erano stati feriti e che sei di questi e un francese erano deceduti in seguito alle ferite. Il Penny Illustrated Paper affermava che molti francesi erano stati feriti, dei quali due mortalmente, mentre tra gli italiani i morti erano una ventina.

Il sito dell'ufficio turistico di Aigues-Mortes, in una pagina sulla strage, riporta che i dati reali sono di 17 morti e 150 feriti. Altre stime forniscono cifre decisamente più alte: Giovanni Gozzini in Le Migrazioni di Ieri e di Oggi stima in 400 i feriti.

Il processo

Subito dopo i fatti, il pubblico ministero di Nîmes si mise al lavoro per rintracciare testimoni. Ne interrogò 70, tra cui 17 italiani, ed indagò su 41 persone. Le indagini portarono a 17 rinvii a giudizio; di questi imputati, solo otto avevano precedenti penali. Su richiesta del pubblico ministero, la corte di cassazione francese decise di tenere il dibattimento ad Angoulême. Tra gli imputati c'era un lavoratore italiano, Giordano, difeso da M. Guillibert, un avvocato di Aix-en-Provence. L'inizio del processo era fissato per l'11 dicembre 1893 ma, a causa della complessità del caso, non iniziò ufficialmente fino al 27 dicembre.

Con l'avanzare del processo, emerse chiaramente che non ci sarebbero state condanne. Il New York Times riferì che la realtà dei fatti era estremamente dubbia a causa di testimonianze false fornite da entrambe le parti. Era evidente che una giuria francese non avrebbe condannato dei cittadini francesi.

Il 30 dicembre la giuria assolse tutti gli imputati. Questi si alzarono per ringraziare e il pubblico in aula li acclamò tra gli applausi.

Reazioni alla sentenza

The Graphic di Londra commento' così la sentenza: "Sulla colpevolezza di ognuno di loro, sia francesi che italiani, non c'era alcun dubbio e nessuno fu stupito dal verdetto più dei rivoltosi stessi. Ma poiché la maggior parte delle vittime della rivolta dello scorso agosto erano italiani, la giuria ha ritenuto di dover mostrare il proprio patriottismo, dichiarando in pratica che per un operaio francese uccidere un concorrente italiano non è un reato".

La stampa italiana fu unanime. Il corrispondente da Parigi Jacopo Caponi dichiarò che dopo questa sentenza politica la Francia non poteva più contare sull'Italia come nazione amica. L'Opinione e L'Italia del Popolo attaccarono duramente la sentenza come scandalosa ed ingiusta, ma osservarono anche che il governo francese non poteva essere ritenuto responsabile della decisione di una giuria popolare. Il Messaggero lodò i giornalisti francesi che con tanta onestà e buon senso avevano aspramente criticato il verdetto. Quando il Presidente del consiglio dei ministri in carica, Francesco Crispi, seppe che la giuria aveva assolto gli imputati, esclamò "le giurie sono simili in tutti i paesi!"

Bibliografia

Barnabà, Enzo. Le sang des marais. Aigues-Mortes 17 août 1893, une tragédie de l'immigration italienne, Marsiglia, 1993;

Morte agli Italiani! Il massacro di Aigues-Mortes 1893, Formigine, 2008 (ISBN 978-88-89602-42-3);

Mort aux Italiens! 1893, le massacre d'Aigues-Mortes, Editalie, Toulouse (ISBN 978-2-9525264-5-6).

Cubero, José-Ramón. Nationalistes et étrangers: le massacre d'Aigues-Mortes, Presse universitaire de France, 1995, ISBN 9782902702961

Duggan, Christopher. The Force of Destiny: A History of Italy Since 1796, Houghton Mifflin Harcourt, 2008, ISBN 0-618-35367-4

Gozzini, Giovanni. Le migrazioni di ieri e di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005.

Noiriel, Gérard. Le massacre des Italiens: Aigues-Mortes, 17 août 1893, Fayard, Parigi, 2005. ISBN 9782213660158

Robb, Graham. The Discovery of France, Picador, Londra, 2007.

Rouquette, Michel-Louis. La chasse à l'immigré : violence, mémoire et représentations, P. Mardaga, Bruxelles, 1997.

Seton-Watson, Christopher. Italy from liberalism to fascism, 1870–1925, Taylor & Francis, New York, 1967. ISBN 0-416-18940-7

fonte: Wikipedia

lavorare in fresco

AFFRESCO CAP. XII – GIORGIO VASARI “DEL DIPINGERE IN MURO, COME SI FA; E PERCHÉ SI CHIAMA LAVORARE IN FRESCO.”

L’appassionato elogio sull’arte dell’affresco che Vasari scrive nel cap. XVIII dell’Introduzione alle Vite nasce dall’esigenza di contrapporsi alla tendenza sempre più diffusa di molti artisti (soprattutto fuori dalla Toscana) di dipingere a olio su intonaci già essiccati. La prima parte del XVI secolo è contrassegnata dal confronto dialettico tra una concezione del dipinto murale più rispettosa delle specifiche attitudini dei materiali a combinarsi armoniosamente con l’intonaco e la tendenza a trasferire nella pittura murale le tecniche della pittura a cavalletto, olio e tempera, forzando anche le possibilità dei materiali. Non tanto decadenza dell’affresco quanto sviluppo di percorsi operativi già avviati nel secolo precedente. Ci aveva già provato Leonardo che ha costituito un riferimento importante per i pittori a lui successivi, anche se il suo approccio è più di tipo scientifico che artistico e marca il suo insaziabile bisogno di sperimentazione.
Benché non manchino opere a olio su muro nella produzione vasariana, ricordiamo per esempio i dipinti murali all’interno della sua abitazione aretina, Vasari ci descrive il dipingere in muro ad affresco come il“più maestevole e bello perché consiste nel fare in un giorno solo quello che negli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato.” evidenziando così l’indiscussa maestria che si deve possedere per operare in tal modo.
Casa del Vasari, Arezzo, Italia, Sala del trionfo delle virtù, 1548
Casa del Vasari, Arezzo, Italia, Sala del trionfo delle virtù, 1548
Questo testo quindi descrive più un ideale tecnico che una prassi concreta; l’aretino si occupò maggiormente della descrizione di tecniche pittoriche particolari, caratteristiche del suo tempo, quali lo «sgraffito», il «chiaroscuro», il «guazzo», l’olio su muro, la pittura su pietra, ma non ritenne di dover descrivere minutamente i procedimenti basilari della pittura ad olio o ad affresco.
Tuttavia nella sua parte finale ci fornisce alcune interessanti osservazioni: “Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoccarlo co’ colori che abbiano colla di carnicci, o rosso d’uovo o gomma o draganti come fanno molti pittori; perchè, oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, e con poco spazio di tempo diventano neri. Però quegli che cercano lavorar in muro, lavorino virilmente a fresco, e non ritocchino a secco; perchè, oltre l’esser cosa vilissima, rende più corta la vita alle pitture, come in ogni altro luogo s’è detto.” L’idealizzazione dell’affresco puro questo passaggio che definisce l’uso delle rifiniture a secco, cioè quando l’intonaco dipinto si è asciugato e può mostrare tutti i suoi pregi e difetti, non come un necessario completamento ma un espediente che mortifica la natura del dipinto soprattutto col passare del tempo e utilizzato solo nel caso il dipinto non sia giunto a perfezione con la sola stesura a fresco. Eppure il ritoccare a secco era una pratica molto diffusa così come l’uso di metodi ad affresco e a olio alternati o combinati nelle stesse opere (caratteristica della scuola raffaellesca per esempio) creando notevoli problematiche in fase di restauro.
Una tra tutti vorrei accennare la tecnica adottata da Michelangelo per la Sistina che è stata oggetto di studi approfonditi e di un animato dibattito in relazione agli interventi conservativi dei primi anni novanta del secolo scorso. Secondo Alessandro Conti, che ne scrisse anche una trattazione, i dipinti avevano originariamente “una superficie di finitura”, ottenuta con velatura di colla, e a tempera per la costruzione delle parti in ombra. In fase di pulitura i restauratori hanno rimosso queste sovrapposizioni all’affresco convinti che esse derivino esclusivamente da ripassature dovute a interventi di restauro successivi. Le argomentazioni portate dagli uni e dagli altri per avvallare le loro tesi sono entrambe autorevoli, ma molteplici e richiederebbero uno studio a parte. A mio parere ho sempre trovato il risultato finale eccessivo, quasi squilibrato nella forma e nei colori e sono praticamente convinta che una parte del lavoro di Michelangelo se lo siano mangiati con la pulitura.
Michelangelo Buonarroti, Cappella Sistina, il profeta Daniele
Michelangelo Buonarroti, Cappella Sistina, il profeta Daniele
Osserviamo per esempio l’immagine del profeta Daniele prima e dopo il restauro; soffermiamoci in modo particolare sui panneggi che coprono le ginocchia. Le pieghe della stoffa si sono ridotte e appaiono come flashate, come se una luce potente, quasi abbagliante, fosse ricaduta su di loro. La tridimensionalità si è attutita perdendo spessore. Ma guardiamo anche il braccio sinistro. Prima del restauro si possono leggere anche le possenti venature scomparse dopo il restauro e il braccio è diventato anch’esso una massa di chiaro abbagliante. Bisogna considerare inoltre che questi dipinti si devono leggere da una notevole distanza. Guardando questa immagine e socchiudendo gli occhi si può ottenere lo stesso risultato; è una tecnica che usiamo quando restauriamo e quando dipingiamo ex-novo per ricreare visivamente l’effetto che si produce guardando l’opera da lontano. Il dipinto dopo il restauro sembra colpito da una scarica di flash. I particolari delle pieghe, risultato del tessuto a contatto con l’anatomia del corpo, sono andati perduti. Appare più che strano pensare che questi accorgimenti siano il risultato di ritocchi pittorici eseguiti durante interventi di restauro successivi alla messa in opera di Michelangelo, a meno che non si voglia attribuire a questi restauratori il merito di aver reso pittoricamente più di quanto il maestro fosse riuscito ad ottenere. Osservando bene il dipinto sono molti i particolari che rispondono alla stessa tipologia. Persino il rosso del panneggio, che pare essere una scoperta coloristica da dopo restauro, a mio avviso doveva essere una stesura preparatoria sulla quale l’artista, procedendo a velature, modellò l’intera figura giungendo infine al tono vinaccia che si vede prima dei restauri (sicuramente alterato col passare degli anni). Probabilmente queste velature erano state eseguite quasi ad intonaco asciutto perciò, non avendo fatto sufficiente presa, sono state asportate durante la pulitura. Notate sulla gamba destra del profeta la parte terminale del panneggio sfrangiato. Dopo i restauri il rosso in cui appare, ha la stessa gradazione della parte sovrastante; eppure, essendo essa sotto il ginocchio, che gli sottrae la luce, dovrebbe essere più scura, in ombra, come infatti compare nell’immagine prima dei restauri. Potrei continuare così per molti altri particolari solo di questa piccola porzione della volta. E’ necessario però aggiungere che la stessa sensazione di inadeguatezza non si percepisce sul volto del profeta né sul corpo del personaggio, angelo o telamone che dir si voglia, che sostiene il libro. Le ragioni di questo risultato possono essere due. Una riguarda la messa in opera di Michelangelo stesso che probabilmente in fase di realizzazione ha curato maggiormente dapprima l’anatomia dei corpi dipingendoli subito a fresco, motivo per cui si sono maggiormente conservati, stendendo una base per i panneggi che poi è andato definendoli quasi a secco, considerandoli, come è giusto che sia da mestierante, di minor importanza e più facile realizzazione. La seconda si avvale della mia pratica di restauratrice che conosce le dinamiche del lavoro di squadra in fase di restauro. Innanzitutto mi viene da pensare che chi ha restaurato la Sistina non ha grande dimestichezza con l’arte della pittura e che si siano, come purtroppo è pratica molto diffusa tra i restauratori, avvalsi solo delle indicazioni tecniche desunte dalla diagnostica pre-restauro. Inoltre non escludo che i panneggi in fase di pulitura, ritenuti completamento dell’opera stessa, siano stati affidati a tecnici meno esperti che procedendo con le stesse metodologie usate sugli incarnati abbiano finito col compromettere il risultato finale che l’artista voleva trasmetterci. Lo so, non è bello, né tanto meno edificante una tal critica da parte mia, ma è quello che ho sempre pensato. Mi si permetta di esporlo nel mio blog con la certezza che sbagliare è lecito per tutti.
Ritornando all’argomento del nostro percorso. Lo scritto di Vasari ci preannuncia la successiva importantissima fase della realizzazione di un affresco; quella della coloritura che sarà tema da sviluppare nei prossimi capitoli.
Paola Mangano
Bibliografia:
– Giorgio Vasari – Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, A cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Prefazione di Giovanni Previtali, Giulio Einaudi Editore 1986
– Le pitture murali. Il restauro e la materia a cura di Cristina Dandi, Le antologie di “OPD Restauro”, Centro Di, Alpi Lito, Firenze 2007.
– Lezioni di restauro. Le pitture murali. Guido Botticelli, Silvia Botticelli. Centro Di, Alpi Lito, Firenze 2008

fonte: passionarte.wordpress.com

28/06/15

di Vento



di Vento Flavia come si esprime, la mia ovaia si contorce e si deprime. Di Flavia Vento invento o divento? Intanto mi accontento che nel suo cervello ci sia fermento, sennò mi spavento. Di Vento Flavia lo spazio che intercorre tra rotaia e binario, è immenso quanto il divario tra materia grigia e il suo cervello precario. Di-Vento un brivido attraverso il quale il vento è lento. Non è un vanto ma il mio IO non è pronto. Contemplo il tramonto. Il racconto è spento.

non è detto



non è detto che se indossassi un bellissimo intimissimo, debba fare sesso. L'ho ricevuto, l'ho provato, l'ho lavato, l'ho riposto nel cassetto.

25/06/15

il Vasari

AFFRESCO CAP. XI – GIORGIO VASARI “DE GLI SCHIZZI, DISEGNI, CARTONI ET ORDINE DI PROSPECTIVE; E PER QUEL CHE SI FANNO, ET A QUELLO CHE I PITTORI SE NE SERVONO”

Delle tre Introduzioni delle Vite di Giorgio Vasari quella sulla pittura è la più articolata e complessa. Vi si trovano raggruppati diversi procedimenti delle arti figurative sotto l’egida della Pittura in base agli effetti pittorici da essi prodotti.
“La pittura è un piano coperto di campi di colore, in superficie o di tavola o di muro o di tela, intorno a diversi lineamenti, i quali per virtù di un buon disegno di linee girate circondano la figura.”Inizia così la prima edizione vasariana dell’Introduzione de la Pittura. (1) Il suo punto di vista è quello di un frescante, arte in cui era particolarmente esperto, e che richiedeva di compiere il procedimento con rapidità e in modo diretto. Ragion per cui era necessario aver tracciato il disegno entro il quale dipingere con abilità e perizia.
Come abbiamo visto a proposito dell’arte di affrescare del XIV secolo, tramandata nel Libro dell’Arte di Cennini, le composizioni seguivano, salvo eccezioni, schemi e regole voluti da una costante tradizione. L’invenzione rinascimentale della prospettiva per la rappresentazione di un efficace spazio pittorico comportò radicali conseguenze sulla teoria e pratica dell’arte, ragion per cui si comprenderà la grande importanza che assunse il disegno preparatorio nella costruzione pittorica di un affresco che non si poteva più improvvisare attraverso la codificazione di schemi stabiliti ma necessitava di appropriati studi così come ci fa sapere il Vasari con la sua consueta bella prosa e precisione nel capitolo XVI dell’Introduzione alle Vite:
“Gli schizzi, de’ quali si è favellato di sopra, chiamiamo noi una prima sorte di disegni che si fanno per trovar il modo delle attitudini, et il primo componimento dell’opra, e sono fatti in forma di una macchia e accennati solamente da noi in una sola bozza del tutto; e perché questi dal furor dello artefice sono in poco tempo espressi, universalmente son detti schizzi, perché vengono schizzando o con penna o con altro disegnatoio o carbone in maniera che questi non servono se non per tentare l’animo di quel che gli sovviene. Da questi schizzi vengono poi rilevati in buona forma e con più amore e fatica i disegni, nel far de’ quali con tutta quella diligenza che si può, si cerca vedere dal vivo se già l’artefice non si sentisse gagliardo in modo che da sé li potesse condurre. Appresso, misuratili con le seste o a occhio, si ringrandiscono dalle misure piccole nelle maggiori, secondo l’opera che si ha da fare.”
A questo punto Vasari ci illustra la necessità di realizzare dei cartoni a grandezza reale di ciò che andremo a dipingere sul muro: “E se in quegli – nei disegni piccoli – fussero prospettive o casamenti, si ringrandiscono con la rete; la qual’è una graticola di quadri piccoli ringrandita nel cartone, che riporta giustamente ogni cosa. Perché chi ha tirate le prospettive ne’ disegni piccoli, cavate di su la pianta, alzate col profilo e con la intersecazione e col punto fatte diminuire e sfuggire, bisogna che le riporti proporzionate in sul cartone.”
Fin qui la tecnica non si discosta da quanto già accennato nel capitolo IX di questo mio trattato. La novità riguarda il trasporto del disegno sul muro che non si esegue più attraverso la realizzazione dello spolvero. Ma seguiamo le indicazioni del Vasari: “E quando questi cartoni al fresco o al muro s’adoprano, ogni giorno nella commettitura se ne taglia un pezzo, e si calca sul muro, che sia incalcinato di fresco e pulito eccellentemente. Questo pezzo del cartone si mette in quel luogo dove s’ha a fare la figura, e si contrassegna; perché l’altro dì che si voglia rimettere un altro pezzo, si riconosca il suo luogo a punto e non possa nascere errore. Appresso per i dintorni del pezzo detto, con un ferro si va calcando in su l’intonaco della calcina; la quale, per essere fresca, acconsente alla carta, e così ne rimane segnata. Per il che si lieva via il cartone, e per que’ segni che nel muro sono calcati si va con i colori lavorando, e così si conduce il lavoro in fresco o in muro.”
Giorgio Vasari, particolare della decorazione di Casa Vasari a Firenze. La luce radente evidenzia il riporto del disegno tramite incisione da cartone.
Giorgio Vasari, particolare della decorazione di Casa Vasari a Firenze. La luce radente evidenzia il riporto del disegno tramite incisione da cartone.
Giorgio Vasari, particolare della decorazione di Casa Vasari a Firenze. La luce radente evidenzia il riporto del disegno tramite incisione.
Giorgio Vasari, particolare della decorazione di Casa Vasari a Firenze. La luce radente evidenzia il riporto del disegno tramite incisione.
Questi segni che spesso si ritrovano sugli affreschi dei più importanti pittori rinascimentali vengono chiamati “incisioni”. Sul cartone rimanevano i solchi del ricalco, e talvolta poteva essere irrimediabilmente bucato, ma la tecnica permetteva un notevole risparmio di tempo (si eliminava l’operazione di foratura per la realizzazione dello spolvero) e permetteva di evitare la perdita dei puntini mentre si dipingeva; il solco così ottenuto nella calce fresca si vedeva sempre anche se con il pennello si passava sopra perché non scompariva più per quanto a lungo ed insistentemente si dipingesse.
Domenico Ghirlandaio, Visitazione, affresco. Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Maggiore parete destra, particolare a luce radente. Si evidenziano i tratti incisi mediante cartone.
Domenico Ghirlandaio, Visitazione, affresco. Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Maggiore parete destra, particolare a luce radente. Si evidenziano i tratti incisi mediante cartone.
Anche se si discosta dalla tecnica dell’affresco non posso tralasciare il successivo passaggio di Vasari dove descrive la tecnica per il trasporto del disegno su tavole e tele sempre partendo dal cartone preparatorio: “Alle tavole et alle tele si fa il medesimo calcato, ma il cartone tutto d’un pezzo, salvo che bisogna tingere di dietro il cartone con carboni o polvere nera, acciò che, segnando poi col ferro, egli venga profilato e disegnato nella tela o tavola.” Va comunque ricordato, anche se Vasari non lo dice, che l’incisione del cartone veniva anche usata su tavole preparate a gesso per evidenziare i limiti entro i quali il pittore doveva attenersi.
Spolvero, incisione con cartone, preparazione di una sorta di carta carbone, tutte queste tecniche sono più che valide ancor oggi e non esiste un metodo migliore a distanza di quasi 500 anni.
L’importanza del disegno preparatorio nel rinascimento per lo studio del chiaroscuro è riportato in altri passaggi dello stesso capitolo XVI. Addirittura Vasari ci dice che molti artisti preparavano dei modelli in creta da copiare per lo studio di quelli che lui chiama “li sbattimenti, ciò è l’ombre”; chiari e scuri, ombre portate si ricreavano attraverso la luce di candele o lumi per raggiungere risultati di perfezione e forza luministica “Il che dimostra il tutto più bello e maggiormente finito”.
Il disegno nel rinascimento divenne lo strumento progettuale per eccellenza; prima di realizzare qualcosa era necessario essere sicuri del risultato che si doveva ottenere. Questo portò ad una improvvisa e straordinaria evoluzione che coinvolse ogni forma del campo umano; dall’architettura alle opere militari, all’ingegneria civile, idraulica, meccanica e ovviamente anche alla pittura e scultura ecc.
Mauro Nicora, Guglielmo Embriaco, cartone preparatorio metà del vero per la realizzazione della facciata a mare di Palazzo San Giorgio Genova.
Mauro Nicora, Guglielmo Embriaco, cartone preparatorio metà del vero per la realizzazione della facciata a mare di Palazzo San Giorgio Genova.
Divenne anche possibile, per l’artista, scindere il momento dell’ideazione da quello dell’esecuzione. Una volta progettato il disegno dell’opera la realizzazione poteva anche essere affidata ad altri i quali, grazie ai disegni avuti, divenivano dei semplici esecutori materiali di quanto ideato dall’artista.
Oggi abbiamo altri strumenti progettuali, molto più potenti, quali il computer, la tridimensionalità virtuale, e così via, ma si tratta pur sempre di strumenti «di visualizzazione». Permettono, cioè, di vedere l’opera che dovrò realizzare come se già esistesse. Strumenti che bisogna essere in grado di utilizzare, interpretare e collocare nella propria dimensione umana, funzione che comunque appartiene all’artista che usando strumenti diversi vuol o tenta di giungere alla stessa finalità; la manifestazione della propria anima.
Ma infine se vorrai creare un affresco ti toccherà sporcarti le mani e ricorrere alle tecniche antiche.
Paola Mangano
Mauro Nicora, 2015 - Assunzione - Chiesa di Santa Maria nascente, Bodio-Lomnago (VA) Bozzetto in scala realizzato con la computer grafica per e poi riquadrato per il trasposto del disegno sul muro.
Mauro Nicora, 2015 – Assunzione – Chiesa di Santa Maria nascente, Bodio-Lomnago (VA) Bozzetto in scala realizzato con la computer grafica e poi riquadrato per il trasposto del disegno sul muro.
Mauro Nicora, 2015 - Assunzione - Chiesa di Santa Maria nascente, Bodio-Lomnago (VA). Cartone preparatorio (carboncino su carta) Studio e ingrandimento della figura della Madonna per la realizzazione dello spolvero.
Mauro Nicora, 2015 – Assunzione – Chiesa di Santa Maria nascente, Bodio-Lomnago (VA). Cartone preparatorio (carboncino su carta) Studio e ingrandimento della figura della Madonna per la realizzazione dello spolvero.
Note
1) Edizione Torrentino 1550. Nella seconda edizione furono aggiunti due capitoli che contengono un contributo teorico all’arte del disegno.
Bibliografia:
– Martin Kempt, La scienza dell’arte – Prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, Giunti, Firenze 1994
– Giorgio Vasari Le tecniche artistiche, introduzione e commento di G. Baldwin Brown, Neri Pozza Editore Vicenza 1996
– Giorgio Vasari – Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, A cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Prefazione di Giovanni Previtali, Giulio Einaudi Editore 1986

fonte: passionarte.wordpress.com

i Borgia


LA FAMIGLIA BORGIA - DANTE GABRIEL ROSSETTI


PAPA ALESSANDRO VI (RODRIGO BORGIA) - PINTURICCHIO

i Borgia furono una delle famiglie più influenti d'Italia nel XV e XVI secolo.

« Pochi nomi nella storia sono stati più esecrati di quello dei Borgia. Contemporanei e posteri ne hanno fatto dei mostri capaci d'ogni frode e scelleratezza. Su di loro sono stati versati fiumi non d'inchiostro, ma di fiele. »

(Roberto Gervaso)

« In Italia per trent'anni sotto i Borgia hanno avuto guerra, terrore, assassini e un bagno di sangue, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. »

(Felix Gilbert)

Il cognome della famiglia, sia in catalano che in castigliano era Borja, dal paese d'origine della casata, anche se attualmente in spagnolo è molto più utilizzata la forma italiana di Borgia.

Storia

La stirpe valenciana era di antiche origini aragonesi, risalenti al XII secolo. A Xàtiva, dove nacque il futuro papa Alessandro VI, poi a Gandia, entrambe nella zona catalanofona del regno di Valencia, la famiglia Borgia acquistò, a partire dal XIV secolo, un crescente potere e prestigio. In quell'epoca il regno di Valencia faceva parte della Corona d'Aragona.

Verso la metà del XV secolo, i Borgia si trasferirono a Roma al seguito del cardinale Alonso Borgia (il cui nome fu italianizzato in "Alfonso"), eletto papa nel 1455 con il nome di Callisto III.

In seguito anche Roderic Borgia (il cui nome fu italianizzato in "Rodrigo"), nipote di Alonso, fu elevato al soglio pontificio nel 1492 con il nome di Alessandro VI. Rodrigo, in Aragona aveva avuto un figlio da madre sconosciuta: Pedro Luis de Borgia, poi duca di Gandia.

Da cardinale, ebbe quattro figli da Vannozza Cattanei, nobildonna di origine mantovana, che a Roma svolgeva l'attività di locandiera:

Cesare Borgia (1475-1507)

Giovanni Borgia (1478-1497)

Lucrezia Borgia (1480-1519)

Goffredo Borgia (1481-1516)

Ebbe anche una figlia da Giulia Farnese:

Laura Orsini (1492-1530)

I Borgia, con i loro intrighi spesso definiti torbidi, dominarono la scena italiana a cavallo tra il XV e il XVI secolo, grazie anche allo sfrenato nepotismo di papa Alessandro VI, che cercò di favorire con ogni mezzo i propri figli. Numerosi episodi oscuri, spesso ingigantiti dagli oppositori del loro arrivismo, caratterizzarono il pontificato di Alessandro, fornendo materiale per una sterminata letteratura nei secoli a venire: dal libertinaggio nel Palazzo Apostolico ai presunti amori incestuosi, dai delitti verso gli oppositori o i più ricchi cardinali della Curia romana (per incamerarne gli averi), fino anche al supposto fratricidio di Giovanni da parte di Cesare. Ombre che si addensarono anche nelle campagne militari del Valentino, temuto per la sua ferocia, o nella turbolenta vita matrimoniale di Lucrezia.

Parlando di quel periodo Voltaire scrisse:

« Lucrezia, figlia del santo padre, stava per partorire, e a Roma non si sapeva se il bambino fosse del Papa, o di suo figlio, il duca di Valentinois, o del marito di Lucrezia, Alfonso d'Aragona, che passava per impotente. »

(Voltaire, articolo Fede del Dizionario filosofico, a cura di Mario Bonfantini, Einaudi Editore)

Epilogo della saga dei Borgia, peraltro mecenati e amanti dell'arte, fu la misteriosa morte del pontefice, a pranzo con altri commensali tra cui lo stesso Cesare che finirono intossicati, che si disse provocata dal suo stesso veleno. Dopo la morte di Alessandro VI, iniziò la decadenza della famiglia e molti dei suoi membri tornarono in Spagna. Gli scandali del papato ai tempi di Alessandro VI e dei suoi successori fecero maturare il malcontento e il desiderio di riforma negli ambienti più conservatori dell'Europa del nord, sfocianti di lì a poco nelle tesi luterane. Del ramo spagnolo dei Borgia furono i cardinali Juan Borgia e Pedro Luis Borgia.

In seguito un pronipote di Alessandro VI, Francesco Borgia (1510-1572), divenne Generale dei Gesuiti e fu poi proclamato santo.

Il ramo italiano dei Borgia si estinse nel 1740 con la morte dell'ultimo discendente maschio, Don Luis Ignacio Borgia II Duca di Gandia. Attualmente, l'unica famiglia patrilineare Borja o Borgia si trova in Ecuador e Cile. Uno dei suoi più importanti discendenti è Rodrigo Borja Cevallos, ex presidente dell'Ecuador.

I Borgia nella cultura di massa

Cinema e televisione

Alla famiglia nobile dei Borgia è stato dedicata nel 1981 una miniserie britannica, I Borgia, con Adolfo Celi nella parte di Rodrigo Borgia, Oliver Cotton in quella di Cesare Borgia e Anne-Louise Lambert in quella di Lucrezia Borgia.
Nel 2006 viene realizzato il film: Los Borgia, una co-produzione Italia-Spagna che oltre alla famiglia dei Borgia si concentra molto su Papa Alessandro VI, che apparteneva alla famiglia Borgia.
Nel 2011 è stata prodotta la serie televisiva I Borgia (The Borgias) mandata in onda su Showtime.
Sempre nel 2011, su Canal+, è stato mandato in onda la serie televisiva di produzione franco tedesca I Borgia, programma proposto in Italia a settembre su Sky Cinema 1.

Videogiochi

Attorno alle vicende dei Borgia (in particolare di Rodrigo Borgia e della sua ascesa al pontificato) si sviluppa la trama della serie di videogiochi Assassin's Creed (a partire da Assassin's Creed II) in cui si dà una versione leggendaria dei misteri legati a Papa Alessandro VI e alla sua morte.
Inoltre sono apparsi anche in Predator: Concrete Jungle dove vengono trasferiti nel 1930 nei panni di una grossa e potente famiglia mafiosa Americana, e successivamente nel 2030 sempre in una potente famiglia mafiosa ma ultratecnologica.
Cesare Borgia è il condottiero della civiltà italiana in Age of Empires III: Napoleonic Era, una mod non commerciale di Age of Empires III: Age of Discovery, un videogioco strategico in tempo reale sviluppato dalla Ensemble Studios.

Altri Borgia

A Perugia prosperò il ramo collaterale Borgia-Sulpizi, proprietari di un grande castello presso il lago Trasimeno.
Il cognome Borgia si riscontra anche in alcune delle comunità etniche e linguistiche albanesi d'Italia (Arbëreshë), ed è diffuso in varianti che poco si diversificano. Originariamente il cognome era in albanese Borgjasë, della famiglia Borgjasë/Borshia del sud di Valona, dalle parti del Bilishti e di Borshi, ma successivamente in Italia, per diversi motivi e situazioni è mutato nella forma attuale. Probabilmente ha inciso la fonetica, in quanto il suono del cognome era molto similare a quello più popolare Borgia, così questo avrà portato alla sua radicale "italianizzazione", avvenuta per molti dei cognomi degli esuli albanesi.

fonte: Wikipedia

23/06/15

lo schermo


il latte materno è il perno che ti accompagnerà ad attraversare lo schermo. Dovrai essere forte e resistere agli urti dell'esterno. Un giorno quando affronterai l'inverno, sconfitto ed infermo, chiuderai il quaderno.

20/06/15

aumentano i casi di Morgellons, la sindrome da "scie chimiche"


La sindrome, o mordo, di Morgellons è una misteriosa malattia che si presenta, generalmente, con disturbi di tipo cutaneo: prurito, sensazione di punture di spillo, fitte improvvise e dolenti, piaghe, eruzioni cutanee permanenti e soprattutto strane fibre filamentose sulla superficie della pelle che, in taluni casi, fuoriescono spontaneamente.

 morgellons

Molti dei pazienti affetti dal morbo di Morgellons provano una strana sensazione di bruciore diffusa su tutto il corpo, altri parlano di “insetti” che corrono appena sotto la superficie della pelle. Altri, ancora, lamentano dolori muscolo-scheletrici ed una sensazione di affaticamento generale.
Dunque, una sintomatologia complessa e ambigua, tanto da far pensare ad una malattia immaginaria, conseguenza di gravi disturbi di natura psicologica. Infatti, la sindrome sembra avere effetti notevoli sull’emotività e sulla cognizione dei pazienti. Tuttavia, questi effetti potrebbero essere considerati contemporaneamente causa e conseguenza di Morgellons.

La prova concreta che smantella l’ipotesi psicologica viene dalla presenza reale e non fittizia di strane fibre filamentose che fuoriescono dalla cute, molto simili alle fibre di polietilene e granuli neri. Il tutto è reso ancor più strano dal colore delle fibre: Blu.

La sindrome di Morgellons è un mistero, un’incognita che la Scienza non riesce tuttora a spiegare: è un morbo particolare, raro, estremamente ambiguo ed incomprensibile.
Bollato per anni dalla comunità scientifica come una patologia psichiatrica, il Morbo di Morgellons è ora oggetto di studio da parte dei Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), l’organo statunitense di ricerca e prevenzione della malattie.
Lo studio, condotto in collaborazione con la divisione di ricerca del consorzio medico “Kaiser Permanente” della California del nord, va a colmare anni di fenomeni di autoaggregazione spontanea di persone colpite dagli stessi sintomi.

La maggior parte dei pazienti, liquidati come matti e accusati di procurarsi da soli le lesioni, si è riunita dal 2002 in una fondazione, la Morgellons Research Foundation, creata da Mary Leitao, che ha anche coniato il nome del morbo su una patologia simile descritta nel 1600.
Il sito della fondazione www.morgellons.org, aperto a tutti coloro che vivono un’esperienza di Morgellons, conta più di 11.000 iscritti, la maggior parte abitanti in California, Texas e Florida: tutti riportano strani fenomeni della pelle come forte prurito, granuli catramosi e filamenti bluastri, rossi e traslucidi che emergerebbero dalle lesioni.



La statunitense Mary Leitao è stata la prima a trattare il caso. La donna infatti, nel 2001 osservò strani comportamenti nel figlio di 2 anni che cominciò a mostrare piccole piaghe sotto un labbro e avvertendo la presenza di inquietanti insetti che glieli avrebbero causate. La Leitao, ex tecnico di laboratorio, esaminò le piaghe al microscopio, dichiarando la presenza di fibre di vario colore.
È stata proprio lei a codificarne la sintomatologia e a battezzare il morbo con il nome di uno studio risalente al diciassettesimo secolo, in cui si faceva riferimento a un bambino francese affetto dagli stessi disturbi.

Nel sito la signora Leitao descriveva minuziosamente gli inquietanti sintomi della misteriosa malattia e alla fine la comunità medica la accusò di aver costruito una messa in scena. Ma alla intraprendente signora giunsero ben settemila mail di persone che accusavano gli stessi sintomi, dichiarandosi anch’essi malati di Morgellons.

Come riporta il resoconto di agenziastampaitalia.it, una tra le poche persone che hanno esaminato scientificamente il morbo di Moregellons è Randy Wymore, un neuro scienziato del Center for Health Science dell’Università di Oklahoma (sul sito dell’Università è possibile leggere la “sintomatologia ufficiale”). Wymore ha ricevuto da diverse persone dei campioni di fibra fuori uscite dalla loro pelle.
Anche se i campioni presentavano una certa somiglianza tra loro, secondo il parere del neuro scienziato queste non erano paragonabili a nessun’altra fibra sintetica o naturale conosciuta. Wymore, inoltre, chiese alla squadra di polizia forense “Tulsa” di esaminarle.

La squadra ha identificato le strutture chimiche delle fibre e le ha confrontate con la loro banca dati costituita da ben 800 campioni. Le fibre in questione non coincidevano con nessuna di quelle del database, pertanto si è ricorsi alla cromatografia gassosa per compararle con 90.000 composti organici. Anche in questo caso, le fibre non hanno dato riscontri tali da poter coincidere con i composti.
La squadra di polizia è giunta pertanto alla conclusione che le fibre sono “ignote”, fatte di elementi sconosciuti e non certo provenienti da vestiti a stretto contatto con le croste di ferite. Le fibre, infatti, bruciate a 700 gradi, si sono annerite ma non distrutte.

Wymore chiese anche al capo reparto di pediatria dell’ospedale universitario di Oklahoma, Rhonda Casey, di osservare alcuni pazienti. Eseguendo la biopsia delle superfici della pelle lesionate nonché di quelle sane, usando un dermatoscopio, la dottoressa Casey è stata in grado di osservare le fibre sotto la pelle dei malati e di ritrovarle unite sia ai tessuti sani sia a quelli danneggiati, identificando, tra l’altro, la varietà di colori di tali filamenti.

Oltre a ciò, la stessa dottoressa ha riferito il caso di una giovane ragazza con una lesione sulla gamba dalla quale spuntavano fibre nere, confermando l’impossibilità, da una parte della giovane, di essersi cagionata ella stessa una ferita simile. Questi sono alcuni dei casi riscontrati (il maggior numero dei malati è negli Stati Uniti) ma, anche nella nostra nazione, ci sono stati diversi casi che gli esperti riconducono alla Sindrome di Morgellons.

Scie chimiche sotto accusa

E’ possibile individuare un collegamento tra le controverse scie chimiche e ciò che esse contengono e il morbo di Morgellons? Nuovi studi e analisi di laboratorio hanno consentito di accertare che il morbo è collegato alla presenza nell’organismo di frammenti costituiti da silicone e da fibre di polietilene dei malati. Il polietilene è usato normalmente nell’industria delle fibre ottiche.
A queste conclusioni è giunta la dottoressa Hildegarde Staninger, tossicologa, nell’ottobre del 2006. La ricercatrice precisa che tali materiali sono usati dall’industria delle nano biotecnologie per incapsulare i virus. Questo potrebbe essere l’anello di congiunzione che fa pensare che ciò che cade in cielo e ciò che troviamo in alcuni pazienti trova una corrispondenza chiara ed inequivocabile.

I ricercatori hanno raccolto prove che le scie chimiche contengono non solo germi, ma anche metalli, cellule di sangue, sedativi, sostanze cristalline, sali di bario, e un tipo di fibra di polietilene e silicio (quella di cui parla la Dottoresa Staninger) che si fonde solo oltre i mille gradi F° e altre sostanze tossiche per l’organismo.
Per non parlare di elementi chimici radioattivi e tossici per la salute di tutto il pianeta. Il Morgellons è forse un effetto collaterale di una sperimentazione di massa? Vogliono stordirci? Alterare la nostra fisiologia rendendoci automi che vengono comandati a distanza? Se è così, allora è proprio vero (per quanto non sia una consolazione) che, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Allo stesso modo coloro che, vogliono comandare e soggiogare la popolazione umana non hanno pensato al fatto che il nostro corpo espelle prima o poi tutto ciò che non è organico? O forse (e sarebbe più grave) sanno che noi umani siamo bravi a guardare il dito e non la Luna? In questo caso basterebbe, in realtà, guardare il cielo.

SITI
http://www.sindromedimorgellons.com
http://it.wikipedia.org/wiki/Morgellons

Da: http://www.ilnavigatorecurioso.it

fonte: ilpoteredellaconoscenza.blogspot.it

io degli uomini non ho capito un cazzo





Ero sicura di piacergli,
dice lei.
E mi racconta una selva di aneddoti
per dimostrarmelo,
ma io tra questi non vedo una prova tangibile
di ciò che sostiene.
E insomma?
Insomma è venuto a casa mia con una scusa stupida,
poi siamo andati dove c'era l'erba,
siamo stati distesi per ore perché lui aveva voglia di 
stare all'aperto. E allora ho pensato che mi avrebbe baciata
sotto un albero.
E invece?
Mi ha detto che sabato sera esce con una.
Ah.
Io degli uomini non ho capito un cazzo.
Eh.

fonte: sexybility.blogspot.it

18/06/15

cupola del Brunelleschi


SANTA MARIA DEL FIORE


LA LANTERNA


AFFRESCHI ALL'INTERNO DELLA CUPOLA

« Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e' popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto? »

(Leon Battista Alberti, De pictura)

La celebre cupola di Brunelleschi costituisce la copertura della crociera del Duomo di Firenze; era la cupola più grande del mondo e rimane tuttora la più grande cupola in muratura mai costruita (diametro massimo della cupola interna: 45,5 metri, quello dell’esterna: 54,8). Grazie alla fondamentale rilevanza che essa ha rivestito per il successivo sviluppo dell'architettura e della moderna concezione del costruire, essa è a tutt'oggi la più importante opera architettonica mai edificata in Europa dall'epoca romana.

La sua grandezza impedì il tradizionale metodo costruttivo mediante l'ausilio di cèntine, facendo sì che venissero formulate molte ipotesi sulla tecnica costruttiva impiegata.

Cenni storici

L'attuale edificio del Duomo fu iniziato nel 1294-1295 e la base del tamburo della cupola fu pronta già nel 1314-1315; tuttavia all'inizio del '400 ancora nessuno si era posto seriamente il problema di trovare una soluzione per la copertura. Il problema della sua costruzione affannava da tempo gli operai del Duomo. Come costruire e dove appoggiare le enormi centine di legno che avrebbero dovuto sostenerla fino alla sua chiusura definitiva con la chiave di volta?

Certamente l'architetto, Arnolfo di Cambio, doveva averlo previsto se aveva immaginato la conclusione del suo edificio con una cupola, un organismo ben diverso e ben più ampio del tradizionale tiburio delle cattedrali medievali. Che poi la Cupola dovesse avere nel suo progetto un aspetto assai più convenzionale è provato da un noto affresco di Andrea Bonaiuti da Firenze che possiamo ancora oggi ammirare nel Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella. L’affresco, che è del 1355 circa, mostra sul fondo una chiesa in cui è chiaramente riconoscibile Santa Maria del Fiore, solo che la cupola, priva del tamburo, è immaginata a tutto sesto. Ma una cupola semisferica, sia pure più piccola e priva di tamburo avrebbe avuto enormi difficoltà a reggere il peso della lanterna di cui è dotata la cupola nell'affresco.

Nel 1418 l'Opera del Duomo bandì un concorso pubblico per la costruzione della cupola. In seguito al concorso, che pure ufficialmente non ebbe vincitori, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti furono nominati capomaestri. Il 7 agosto 1420 ebbe inizio la costruzione della cupola, che fu completata fino alla base della lanterna il 1º agosto 1436.

Il grandioso cantiere aprì i battenti all'indomani della stesura del cosiddetto "dispositivo" del 1420, attribuito allo stesso Brunelleschi, dove si esponeva il modo con il quale si sarebbe dovuto chiudere il tamburo e si precisavano per punti salienti le modalità di costruzione. In sostanza, si trattava di un singolare "programma dei lavori" che sintetizzava in poche righe la struttura, la forma e le dimensioni del manufatto, ma più che esprimere un'intenzionalità programmatica, Brunelleschi enunciava il progetto impartendo disposizioni esecutive. In quei dodici punti da lui elencati non solo era contenuta già l'opera finita, ma vi erano persino indicate quelle variazioni, incidenti e aggiunte che si sarebbero dovute fare: era stato previsto, per esempio, l'inserimento nelle pareti della Cupola di numerosi anelli di ferro per sostenere le impalcature sulle quali avrebbero lavorato gli autori degli affreschi.

Nel 1425 Ghiberti venne estromesso dai lavori, che passarono interamente in mano a Brunelleschi. Il cantiere procedette così senza apprezzabili interruzioni, fino a quando, nell'agosto del 1436, venne infine celebrato ufficialmente, con la solenne benedizione di papa Eugenio IV, il completamento della fabbrica. La consacrazione fu solennizzata dall'esecuzione in prima mondiale del celebratissimo mottetto isoritmico di Guillaume Dufay Nuper rosarum flores, con riferimento appunto allo stemma di Firenze e alla dedicazione della basilica a Santa Maria del Fiore.

Terminata la costruzione della cupola venne indetto un altro concorso pubblico per la lanterna, vinto sempre da Brunelleschi. I lavori iniziarono però solo nel 1446, pochi mesi prima della morte del grande architetto; essi proseguirono allora sotto la direzione dell'amico e seguace Michelozzo di Bartolomeo, per essere terminati da Antonio Manetti il 23 aprile 1461.

Forma e struttura

Giovanni di Gherardo da Prato, Disegno con osservazioni sul tracciamento della Cupola, 1426
A partire da un tamburo ottagonale la Cupola si erge su otto spicchi, le vele, organizzati su due calotte separate da uno spazio vuoto. Il motivo di questa scelta è senz’altro da attribuire a un alleggerimento della struttura che altrimenti sarebbe stata troppo pesante, probabilmente, per essere sostenuta dai quattro pilastri sottostanti. Lo spazio fra le due calotte misura circa 1,20 metri ed è attraverso il suo percorso che si giunge fino alla Lanterna. Una catena lignea formata da 24 travi collegate tra loro da staffe e perni di ferro circonda tutta la costruzione. Sulla sua efficacia si è discusso a lungo. Sinteticamente, oggi, possiamo affermare che, in linea di principio, una cupola è tanto più stabile quanto più è saldo il suo tamburo (e la sua base) d’imposta: dunque un sistema di cerchiatura efficace è utile alla stabilità. Questo anello, infatti, serve per “stringere” la costruzione alla base, in modo da contrastare le pericolose forze dirette verso l’esterno. Per quanto riguarda invece l’impiego di catene lignee o di pietra si resta dubbiosi, se non altro per l’elasticità del legno e per l’incapacità della pietra di lavorare a trazione. Fra gli elementi che compongono la Cupola esistono proporzioni auree com'era in uso a quel tempo. La sensazione che si ha, infatti, osservando questo capolavoro, è di sostanziale equilibrio e armonia nelle sue parti. La sua base d’imposta si trova a circa 55 metri dal suolo, la lanterna è alta 21 metri, il tamburo misura 13 metri e l’altezza della Cupola è, in media, 34 metri. L'elevazione totale dell'intera struttura, compresa la palla dorata e la croce che la sormontano, è di metri 116,50. Va ricordato, tuttavia, che le misure reali della Cupola vanno calcolate in braccia fiorentine e non secondo il sistema metrico decimale, pertanto ogni suggestiva elucubrazione riferita all'appartenenza dei numeri 13, 21, 34, 55 alla famosa successione di Fibonacci è del tutto erronea e priva di senso. Quando la Cupola fu consacrata nel 1436, un famoso musicista fiammingo, Guillaume Dufay, compose per l’occasione il mottetto Nuper rosarum flores, composizione che riproduceva in musica i rapporti della costruzione.

Anche il contorno apparente della Cupola rispetta regole ben precise: il profilo angolare esterno è un sesto di quarto acuto, mentre quello interno è un sesto di quinto acuto. Ciascuna diagonale dell'ottagono esterno, che misura circa 54 metri, è stata suddivisa in quattro parti uguali: da qui la definizione di "quarto acuto". Il profilo della Cupola, in ogni caso, assume una forma d’estrema importanza per la sua stabilità: infatti, si avvicina molto a quella di una catenaria rovesciata. Questo nome deriva dal fatto che la sua forma è quella che assume una catena appesa, tenendo fermi i suoi due estremi. Come avrebbe dimostrato Bernoulli solo alla fine del seicento, tale forma è la più adatta per sostenere una cupola che si regge col proprio peso. Arrivati alla sommità troviamo la Lanterna, completata con l’intervento di più artisti dopo la morte del Brunelleschi sopraggiunta nel 1446. Per realizzarla, furono utilizzate macchine che l’architetto stesso aveva progettato. Queste macchine, necessarie per sollevare verso l’alto i materiali durante la costruzione della Cupola, e che da sole segnano un formidabile progresso nella scienza delle costruzioni sono generalmente viste da quasi tutti gli autori che si occupano della costruzione, da Vasari a Ross King (vedi bibliografia) come una applicazione delle tecniche elaborate da Brunelleschi per i suoi celebri orologi, dei quali a quanto pare resta un solo esemplare superstite, quello della torre del palagio di Scarperia. Anche la Lanterna ha una funzione molto importante per la statica globale. I costoloni, infatti, convergono verso il serraglio, la base della Lanterna, il cui diametro è circa 6 metri. Le forze che agiscono sulla Cupola sono tali che gli stessi costoloni tendono a piegarsi verso l'interno per effetto dei carichi e del peso proprio. La Lanterna, con il suo enorme peso (circa 750 tonnellate) ha la funzione di contrastare queste forze pericolose incuneandosi nella struttura e annullando le spinte che si generano alla sua base. Nel 1472, il Verrocchio costruì la palla di bronzo che fu posta sulla sua cima usata per stabilizzare l'anello di congiunzione della cupola[senza fonte]. Anche per questo furono necessarie le macchine di Brunelleschi. Fra i ragazzi di bottega che aiutarono il Verrocchio in questa difficile operazione c’era un giovane da Vinci, Leonardo. La notte fra il 26 ed il 27 gennaio 1600 intorno alle 5 di mattina, a causa di un fulmine, la palla cadde, danneggiando in più punti la cupola (venne riposizionata nel 1602; dietro la piazza sotto la cupola un disco di marmo ancora testimonia il punto esatto in cui la sfera originaria si schiantò al suolo).

La costruzione

Il problema della cupola e le centine

Il tamburo, di forma ottagonale, su cui avrebbe dovuto poggiare la cupola misurava circa 43 metri di ampiezza e si trovava a 54 metri di altezza. Queste dimensioni erano notevolmente maggiori di quelle previste all'inizio. Le ragioni di questo aumento, che portava le dimensioni dell'edificio a superare quelle della cupola del Pantheon, fino allora la più grande cupola del mondo tanto che la leggenda la considerava opera del demonio, vanno ricercate non tanto nella volontà di primato, quanto nella necessità di rinforzare al massimo il tamburo della cupola. Il tamburo infatti era stato rialzato rispetto al modello originale mediante un piano in cui si aprono otto grandi occhi, che favorivano l'illuminazione del triconco absidale della Cattedrale. Con questo espediente si rialzava anche il piano di imposta della cupola al di sopra di tutte le volte fino allora costruite. Le altissime volte della cattedrale di Beauvais in Francia, che per la loro arditezza crollarono poco dopo la loro costruzione, raggiungevano infatti "solo" i 48 metri di altezza. Ma il tamburo di forma ottagonale e irregolare creava anche il principale ostacolo all'erezione della cupola. Brunelleschi calcolò con precisione ogni dettaglio, dall'inclinazione delle pareti alla disposizione dei mattoni a spina di pesce. In questo modo la cupola era in grado di sorreggersi da sola, senza poggiare sulle tradizionali impalcature di legno solfureo.

Una cupola che non è una cupola

Una cupola emisferica (o parabolica, o ellissoidale, come nel duomo di Pisa) è una figura o luogo di punti individuata come un arco "ruotato" attorno al proprio asse. Si parla in questo caso di cupola di rotazione. Costruire una cupola di rotazione è teoricamente sempre possibile, in quanto la cupola è costituita da infiniti archi, ciascuno dei quali una volta completato si reggerà da solo. Cominciando a costruire la cupola dai bordi si realizzeranno piccoli archi in grado di reggersi da soli che a loro volta potranno sostenere archi più ampi addossati ai precedenti, che una volta completi saranno autoreggenti.

La preoccupazione dei capomastri che si succedettero nei cantieri del Duomo era motivata dal fatto che il progetto prevedeva una cupola ottagonale a facce piane, che non è un solido di rotazione. La cupola del Duomo di Firenze non è una cupola ma una volta ottagonale, descrivibile come l'intersezione a 45° di due volte a pianta quadrata (molto simili, in effetti, alle volte della navata della stessa Cattedrale). A differenza di una cupola di rotazione, una volta non è autoreggente. L'impiego di centine, cioè di impalcature lignee cui affidare il sostegno delle murature in costruzione fino alla presa delle malte, era in questo caso indispensabile. Fra l'altro in Italia non era possibile ottenere le gigantesche travi disponibili invece in Nord Europa. Ma anche le immense travi usate per le cattedrali di Francia e Inghilterra non sarebbero bastate a sostenere volte come quelle che si dovevano costruire.

Il segreto della cupola

Filippo Brunelleschi era famoso a Firenze, oltre che come artista poliedrico, come possessore di un caratteraccio e di un senso dell'umorismo un po' perverso; una sua burla, giocata ai danni di un povero ebanista di nome Grasso, fu celebre nel mondo delle brigate della società fiorentina: mediante una serie di testimonianze sapientemente orchestrate, Filippo fece credere al poveraccio di essere diventato un'altra persona, uno scapestrato perennemente in cattive acque di nome Matteo. Il successo della burla fu tale che il Grasso finì col fuggire dalla città, e la storia della burla feroce, col titolo di Novella del Grasso legnaiuolo fu un vero e proprio successo editoriale, giungendo fino a noi in numerose versioni.

Brunelleschi, pare suggerire la favola, era maestro nel far credere una cosa per un'altra; non per niente Brunelleschi è il padre della prospettiva, che è una rappresentazione illusionistica di una realtà tridimensionale con mezzi bidimensionali. Orbene, Filippo con la sua cupola sembra abbia giocato a noi una burla di questo genere, ancora più straordinaria dell'altra; dopo anni di dibattiti su quale fosse il "magico artificio" che aveva permesso il risultato che è davanti a tutti, non si era andati avanti di un passo. La cupola ottagonale a facce piane, da costruirsi senza centine e con le malte a lenta presa dell'epoca non poteva reggersi. L'uso dell'orditura a spina di pesce dei mattoni, visibile a tutti nei corridoi dell'intercapedine fra le due cupole, era indicata generalmente come una componente del "segreto" ma senza che se ne comprendesse la reale funzione.

Una delle spiegazioni più generalmente accettate è quella espressa separatamente dal professor Salvatore Di Pasquale (già preside della Facoltà di Architettura di Firenze) e dal professor Mainstone. Questi e altri studiosi furono aiutati dalla scoperta, durante la rimozione delle tegole da uno dei settori della cupola per lavori di restauro, che i letti di posa dei mattoni non erano affatto orizzontali, ma seguivano una curva aperta verso l'alto, detta a corda blanda. Questo fatto, mai notato prima, indusse a esaminare la disposizione dei mattoni, che negli studi precedenti era sempre data per scontata, con oscuri e generici riferimenti alle tecniche murarie romane, o addirittura arabe. Si poté quindi osservare come le facce dei mattoni non siano parallele, ma sistemate lungo rette originate da un punto situato al centro dell'ottagono di base della cupola. La conclusione era sconcertante; i mattoni erano sistemati come se fossero stati disposti per costruire una cupola di rotazione. Per semplificare quanto più possibile, era come se la cupola a facce piane fosse stata costruita tagliando via parti di muratura costruite come una cupola classica; perché la struttura fosse autoreggente era quindi sufficiente che nello spessore delle murature fosse possibile inscrivere una cupola di rotazione di spessore adeguato alle necessità statiche. Non potendo, però, costruire la cupola di uno spessore così grande da contenerne una di rotazione, il Brunelleschi introdusse la doppia calotta e i costoloni intermedi attraverso i quali la forma circolare della cupola di rotazione poteva passare dalla calotta interna (dove raggiunge l'intradosso negli angoli dell'ottagono) a quella esterna (dove raggiunge l'estradosso nei punti mediani dei lati). I mattoni a spina pesce servivano quindi per misurare la costruzione della cupola di rotazione, quest'ultima aveva lo scopo di sorreggere la struttura durante la costruzione fino a quando non fosse stata chiusa in chiave evitando così l'utilizzo di immense centine. Filippo grazie allo studio delle cupole Romane, della geometria ma soprattutto grazie a una progettazione minuziosa durata anni, riuscì a costruire senza ausilio di centine la cupola ottagonale che rimane a tutt'oggi la più grande struttura in muratura mai costruita.

La teoria più nota è quella formulata e pubblicata dal prof. Massimo Ricci. Secondo questa teoria la tecnologia della cupola non risponderebbe affatto, nemmeno nelle strutture interne, a una cupola di rotazione: i mattoni a spinapesce non sarebbero apparecchiati secondo corsi circolari, ma paralleli alle superfici delle vele.

In questa ricostruzione, la struttura della cupola è concepita come una successione di piattabande radiali orizzontali. Recenti verifiche su questa ipotesi costruttiva, fatte nell'intradosso delle calotte, attestano che la struttura della cupola fu sviluppata in senso radiale-verticale e non orizzontale, come l'ipotesi di rotazione richiederebbe. L'utilizzo di un sistema radiale orizzontale è limitato all'assetto dei mattoni a spinapesce; Brunelleschi avrebbe fatto uso di una curva pseudocircolare posta sull'impalcato d'imposta della cupola e di un centro sulla verticale del monumento, materializzato mediante corde incrociate piombate sulle diagonali di base e fissate negli angoli relativi.

In questo modo fu possibile tracciare gli angoli della cupola utilizzando piccole centine mobili, e allo stesso tempo (con la curva pseudo circolare a cui viene riferita una cordicella mobile fissata da un lato su questa e passante per il centro sulla verticale) offrire ai muratori un riferimento in ogni punto della costruzione per porre in opera i mattoni. Questo sarebbe, secondo Ricci, l'effettivo ruolo dei mattoni a spinapesce, il che spiegherebbe la muratura a corda blanda vista da Di Pasquale nella famosa foto della vela della Cupola senza le tegole. Questa teoria è stata messa in pratica nel modello parziale in muratura (scala 1:5) eretto sotto la direzione del prof. Massimo Ricci nel parco dell'Anconella a Firenze, dove sono state utilizzate le tecnologie di costruzione e il metodo costruttivo suddetto.

L'esperimento ha anche permesso di precisare gli aspetti più raffinati della tecnologia della cupola, come ad esempio la tessitura strutturale degli arconi angolari, il ruolo della spinapesce e la possibilità da parte di Brunelleschi di controllarne l'andamento via via che la costruzione si sviluppava in elevazione. L'importante ruolo della muratura a spinapesce aveva stupito, e convinto, anche l'architetto Giovanni Michelucci nel corso di una sua visita al modello nel 1989.

Le possibili ispirazioni di Brunelleschi

Nel lungo dibattito sulle possibili fonti d'ispirazione del Brunelleschi nella costruzione della cupola sono state avanzate diverse ipotesi, fatta salva l'assoluta novità della tecnica finale utilizzata:

In realtà Brunelleschi non aveva alcun riferimento tecnologico per risolvere il problema di costruire una cupola a spicchi (cioè una volta a botte sestiacuta a pianta ottagonale); egli dovette letteralmente inventare il procedimento costruttivo in tutta la sua meccanica. Tutte le altre cupole che si è cercato di proporre come modelli del Brunelleschi o erano cupole di rotazione (autoportanti) o centinabili e armabili, mentre quella di Santa Maria del Fiore non permetteva questi espedienti e quindi la sua costruzione fu un assoluto unicum nella storia dell'architettura.

È indubbio che Brunelleschi avesse ben presente la geometria e la tecnica costruttiva della copertura del Battistero di San Giovanni, costruita su una calotta con profilo a sesto acuto da una pianta ottagonale. Ma essa non è voltata a spinapesce. Per quanto concerne la seconda fonte di ispirazione, ci spinge a Roma la notizia del più importante biografo dell’architetto, Antonio di Tuccio Manetti nella cui opera si legge che il Brunelleschi vi avrebbe trascorso anni di studio, richiamato forse dai ritrovamenti di oggetti e sculture propri di quegli anni. Agli inizi del Quattrocento la città eterna era uno sterminato campo archeologico. È qui che respirò le suggestioni dell’architettura classica ed ebbe conferma delle teorie di Vitruvio, secondo le quali tutta l’architettura è governata da un modulo e da una griglia geometrica. Ma la cupola più famosa della romanità, quella del Pantheon, è una cupola di rotazione realizzata in calcestruzzo con casseforme. La tecnica di realizzazione non era riproducibile e anzi doveva essere del tutto incomprensibile nel'Italia del Primo Rinascimento, che aveva perso memoria delle tecniche romane del calcestruzzo.

Dallo studio dell’esterno, Brunelleschi si sarebbe al massimo potuto accorgere che la forma gradonata si innalzava da una forma circolare e, quindi, che le cupole romane generalmente contengono sempre un anello circolare completo ad ogni livello nel loro spessore. Forse Brunelleschi ha apprezzato la cupola della Domus Aurea, innalzata su un padiglione ottagonale limitatamente alla parte bassa e costruita con una sorta di calcestruzzo fresco, richiedente centinature durante la presa.

L'ipotesi del viaggio romano di Brunelleschi è generalmente accettata da tutta la critica, ma recentemente è stato fatto notare che, una volta che si rinunci (com'è necessario) alla derivazione della cupola del duomo da quella del Pantheon, nulla nell'opera del grande architetto deve per forza essere ricondotto ad elementi architettonici che erano visibili solo a Roma. Il viaggio a Roma è quindi possibile, ma non indispensabile per la comprensione della formazione dei canoni architettonici brunelleschiani.

Per la fonte persiana, qualcuno vuole ipotizzare che l’architetto sia venuto a conoscenza delle tecniche costruttive dei mausolei orientali, dati gli intensi scambi commerciali col Medio Oriente. La doppia cupola girata senza centine del mausoleo di Soltaniyeh, in Iran, costruito fra il 1302 e il 1312, o l’apparecchio murario a spinapesce degli antichi edifici selgiuchidi (X secolo) o le più tarde moschee di Isfahan e Ardistan sono paragonabili al linguaggio strutturale e alla tecnica del Brunelleschi, pur differendone sostanzialmente nei materiali, nell'apparecchio murario e nelle dimensioni.

Affreschi

Pur costruita con tecniche rivoluzionarie la cupola era pur sempre nata su diretta ispirazione della cupola del Battistero, cui doveva il grande sviluppo, e la forma ottagonale. In origine era previsto un altro elemento di richiamo alla veneranda cupola romanica; infatti la decorazione interna era prevista a mosaico. Brunelleschi realizzò numerosi affacci a cui i decoratori avrebbero potuto ricorrere per avventurarsi nel pauroso vuoto per lavorare.

Ma la tecnica del mosaico era ormai pochissimo praticata, e considerata estremamente costosa. Oltretutto il mosaico destava preoccupazioni per il grande peso che la preparazione necessaria per affondarvi le tessere avrebbe aggiunto alla cupola; questa preoccupazione non sembra molto importante a noi moderni che conosciamo il peso immane della cupola (circa 25000 tonnellate!) e la sua resistenza, ma all'epoca fu considerata una ragione non secondaria per abbandonare il progetto in favore di una decorazione ad affresco.

I lavori cominciarono solo nel 1572, in pieno manierismo. le vicende politiche avevano ritardato l'inizio dei lavori fino a che Giorgio Vasari intraprese la decorazione su committenza di Cosimo I de' Medici. Alla morte del Vasari però solo il primo giro delle fasce concentriche previste era compiuto, quello più piccolo, attorno all'oculo ottagonale alla sommità, coperto dalla Lanterna. Gli successe Federico Zuccari, che in pochi anni e, a suo dire, quasi senza aiuti, portò a termine a tempera l'immenso ciclo figurativo, uno dei più grandi del mondo per superficie, e uno dei capolavori del manierismo; il pittore stesso, nel suo testamento, ricordava non senza orgoglio di avere concepito e portato a termine l'opera, di cui menziona soprattutto il grande lucifero, alto ben 13 braccia fiorentine (circa 8 metri e mezzo).

La gabbia per grilli

Terminata la costruzione della cupola, restava da decorare la parte superiore del tamburo ottagonale. Il tema, sotto il profilo dimensionale, era già stato accennato da Brunelleschi nel modello ligneo a lui attribuito (conservato presso il Museo dell'Opera del Duomo). A questo fece seguito il modello realizzato da Antonio Maria Ciaccheri tra il 1452 e il 1460, che recepisce, probabilmente, alcune indicazioni dello stesso Brunelleschi; sempre alla fase quattrocentesca risale quello attribuito a Giuliano da Maiano.

La questione rimase tuttavia irrisolta fino all'inizio del Cinquecento, quando fu indetto un concorso per il completamento del tamburo. Al concorso presero parte diversi architetti, ognuno con propri modelli lignei: Andrea Sansovino (che prevedeva un coronamento con ballatoio schermato da colonne ioniche), Giuliano e Antonio da Sangallo il Vecchio (in cui il ballatoio è assente), Il Cronaca assieme a Giuliano da Sangallo e a Baccio d'Agnolo, nonché Michelangelo Buonarroti.

In particolare, nell'estate 1507 Michelangelo fu incaricato dagli Operai di Santa Maria del Fiore di presentare, entro la fine del mese di agosto, un disegno o un modello per il concorso del tamburo. Secondo Giuseppe Marchini, Michelangelo avrebbe inviato alcuni disegni a un legnaiolo di Firenze per la costruzione del modello, che lo stesso studioso ha riconosciuto nel modello identificato con il numero 143 nella serie conservata presso il Museo dell'Opera del Duomo. Esso presenta un'impostazione sostanzialmente filologica, tesa a mantenere una certa continuità con la preesistenza, mediante l'inserimento di una serie di specchiature rettangolari in marmo verde di Prato allineate ai capitelli delle paraste angolari; era prevista un'alta trabeazione, chiusa da un cornicione dalle forme analoghe a quello di Palazzo Strozzi. Tuttavia questo modello non fu accolto dalla commissione giudicatrice.

Nel 1512 fu presa la decisione di far partire i lavori per il completamento del tamburo secondo il progetto approntato da Baccio d'Agnolo insieme al Cronaca e a Giuliano da Sangallo. Lo stesso Baccio d'Agnolo, allora capomastro dell'Opera di Santa Maria del Fiore, fu incaricato di seguire il cantiere; il progetto prevedeva l'inserimento di un massiccio ballatoio sorretto da colonne in marmo bianco alla sommità del tamburo, con nove arcate per lato (poi portate a undici in fase di costruzione). Tuttavia i lavori furono interrotti nel 1515, con il ballatoio ultimato solo sul lato della cupola rivolto verso via del Proconsolo, sia per lo scarso favore ottenuto, sia a causa dell'opposizione di Michelangelo.

E qui l'aneddoto. Baccio decise di fermarsi e di chiedere un parere al popolo di Firenze. Soggiornava in città Michelangelo Buonarroti, il quale fu naturalmente chiamato in causa. Guardando l'opera, dopo un po' pare abbia esclamato: "Mi pare una gabbia per grilli!!!". Baccio d'Agnolo, artista sensibilissimo, si sentì offeso e lasciò il tamburo incompiuto, proprio come lo vediamo noi oggi (resta solamente il lato di via del Proconsolo).

Molto probabilmente l'enorme peso di tutto il ballatoio così finito avrebbe creato problemi di stabilità all'intera cupola.

Intorno al 1516 Michelangelo eseguì comunque alcuni disegni per il completamento del tamburo (conservati presso Casa Buonarroti) e fece costruire, probabilmente, un nuovo modello ligneo, identificato, seppur con ampie riserve, col numero 144 nell'inventario del Museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore. Ancora una volta si registra l'abolizione del ballatoio, a favore di un maggiore risalto degli elementi portanti; in particolare un disegno mostra l'inserimento di alte colonne binate libere in corrispondenza degli angoli dell'ottagono, sormontate da una serie di cornici fortemente aggettanti (uno schema che sarà successivamente elaborato anche per la cupola della basilica di San Pietro in Vaticano). Le idee di Michelangelo rimasero su carta e il tamburo fu lasciato incompleto su sette degli otto lati.

Curiosità

A Barberino Val d'Elsa, in località Semifonte, esiste la Cappella di San Michele arcangelo, una copia 1:8 della cupola del Brunelleschi, edificata da Santi di Tito nel 1597.
Michelangelo Buonarroti in una lettera al padre, poco prima della sua partenza per Roma scrisse, riferendosi alla Cupola che poco dopo avrebbe progettato per la Basilica di san Pietro, "Vo' a Roma a far la su' sorella, più grande sì, ma non più bella".

fonte: Wikipedia

NATIONAL GEOGRAPHIC

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